mercoledì 10 agosto 2016

Le parole che uso (spesso) provengono dai miei condizionamenti

“[…] L’invito è quello di portare attenzione alle parole che uso. Infatti, già nell’utilizzo di determinate parole io posso comprendere quando e quanto sia immerso nella mia storia (il “dover essere”), nel circolo continuo giudice-bambino e nel vedere il mio quotidiano tramite la lente del mio condizionamento (come mi sono condizionato e limitato per essere come pensavo che gli altri mi volessero).
Non a caso, se esprimendomi uso il verbo “devo”, sicuramente non sto manifestando un mio desiderio, non sto agendo  ascoltandomi dal profondo del mio Essere, bensì, mi sto muovendo, spesso inconsciamente, secondo un obbligo, rispondendo in maniera automatica alla situazione che mi si presenta:  “devo fare così”, “devo essere così”. Quindi, se nel mio comune colloquiare uso il “devo” sono nel campo del mio “giudice interiore”, cioè in quel rigido sistema di regole e modelli a cui “devo” (appunto) attenermi per essere accettato dagli altri.
Se sono nello spazio della presenza, della consapevolezza, posso accorgermi che sto usando tale verbo, tale espressione verbale (ma può essere anche semplicemente pensata) e quindi posso scegliere di fermarmi e sentire (ascoltando le sensazioni che si muovono nel mio corpo) se quell’azione (o non azione) che sto agendo (o non agendo) sia qualcosa di mio, che sento mio, oppure è un automatismo ad un condizionamento antico, un qualcosa che riguarda la mia storia. Ecco come una semplice parola può essere un campanello di avvertimento utile a richiamare la mia attenzione al mio momento presente; permettendomi  così di togliermi dall’automatismo della mia risposta, e concedendomi  la possibilità di interrogarmi su cosa effettivamente voglia in quel preciso momento ed aprirmi a ciò che emerga dal mio profondo (la guida). Questa è la libertà.
Vi sono altri segnali verbali (o solo pensati) per smascherare quando cado nel mio antico condizionamento limitante. Basta che pensi a quando utilizzo gli avverbi “sempre” o “mai”: “Sono sempre triste”, “Nessuno mi ha mai amato”. Ricorrendo spesso a tali avverbi, io trasformo uno o più episodi che ho realmente vissuto in determinati momenti della mia esistenza, come qualcosa di assoluto, cioè come se ogni mio istante della mia vita fosse stato “sempre” caratterizzato da quella emozione o  da quella modalità esperienziale. Questo è falso. Niente in natura rimane statico, tanto meno io e in me stesso le emozioni o le esperienze che vivo. Posso aver fatto esperienza di tristezza e di dolore anche per periodi lunghi, ma anche in quei momenti, quella tristezza e quel dolore non mi si sono manifestati per “sempre”, in ogni istante e con la stessa intensità. Invece,  ho sperimentato, forse anche contemporaneamente al dolore, altre emozioni, e forse anche gradevoli, ma in quel momento non le ho riconosciute tali, perché non “potevo farlo”, non “dovevo farlo”, perché ero completamente identificato con quell’immagine di sofferenza che avevo (od ho ancora) di me, e per il mio “giudice interiore” nessun altro comportamento era (è) accettabile. Il mio “giudice interiore” , cioè il filtro di condizionamenti attraverso cui vedo e vivo la (mia?) vita, infatti, tende a generalizzare le mi esperienze, spesso quelle negative, perché così rafforza la mia identificazione con la mia storia condizionata (con l’immagine che mi sono dato per essere accettato), per tenermi legato a quel “porto sicuro” di una vita comunque controllata, evitante, di rinunce e limitata.
Un’altra modalità di impiegare parole che mi portano fuori dalla presenza e quindi limitandomi nel mio modo di vivere, è quella di non appropriarmi delle mie esperienze. Spesso, nel descrivere un mio vissuto o se voglio esternare una mia opinione, esordisco dicendo: ”E’ come se uno sentisse…” “In questa situazione una persona si sente…” . Cioè, nel descrivere qualcosa che posso sentire o vivere solo io, mi distacco da questa mia esperienza, generalizzandola, o perfino attribuendola ad un generico altro. E’ un tipico modo di buttare via la mia esperienza, quasi a dire che sono incapace o non meritevole (quindi sotto sotto c’è un mio giudizio svalutante su me stesso) di poter sentire e pensare ciò. Anche qui, praticando presenza (quindi ascoltando cosa mi sta accadendo dentro me stesso, senza giudicarlo, ma semplicemente accogliendo cosa emerga: la ricchezza di sensazioni e percezioni che mi si muovono) mi accorgo che sto buttando via da me, anche svalutando, la mia esperienza, e, quindi, scelgo di interrompere questa dinamica e di fare un passo verso di me, di andare dentro di me e riportare a me tale esperienza: “In questo momento Io sento…”, “io sento che…”. E mi ricordo che solo io so cosa sento, che non c’è un giusto o uno sbagliato nel sentire o non sentire qualcosa e nessuno può portarmi via tale esperienza.
Tengo presente quindi che le parole che uso, spesso, provengono dai mie condizionamenti. Quindi, il ritornare a me stesso, alla mia Essenza, passa anche attraverso il linguaggio che utilizzo. Porto presenza anche alle parole che uso. Le sento, le uso. […].”
(Laboratorio di Pratica della Presenza)

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