“[…] L’attaccamento
alla sofferenza è l’attaccamento alla propria storia, è l’attaccamento alla mia
interpretazione della mia storia (l’immagine che mi sono creato di me e che
offro a me ed agli altri). Ma la storia non esiste, esisto io, esisto io in
questo momento presente. E senza la mia storia io vivo nella mia piena libertà.
Invece, la storia è quel simbolico “cadavere” che mi porto sulle spalle quotidianamente
(quante volte mi sembra di avere un fardello sulle spalle?) e da cui mi
alimento per tener viva la mia identificazione con l’immagine di me che mi sono
costruito, per continuare ad agire secondo un modello. Infatti, tale
identificazione, sebbene dolorosa, paradossalmente è qualcosa che conosco da
molto tempo e quindi mi dà (l’illusione) di sicurezza e di poter controllare la
mia vita, di rispettare un mio antico “dover essere”. Eppure, se mi sposto
nell’Essere, nella piena consapevolezza di me, mi trovo in uno spazio in cui personalmente non mi manca niente e in
cui non ho bisogno di alcun riconoscimento esterno. Invece, nella storia, nella
personalità vivo nella convinzione che io sia mancante di qualcosa e che debba
disperatamente trovarlo fuori. Ma non essendoci niente da trovare, ovviamente
non trovo niente, e da qui ecco sorgere questo continuo mio disagio, senso di
frustrazione. Se prendo consapevolezza che non ho bisogno di niente, che tutto
ciò che cerco fuori è già in me, entro in uno spazio di fluidità e di completa
espansione dove c’è tutto e niente, pienezza e spazio allo stesso tempo. Eppure
questo passaggio nel riconoscere il mio Essere pieno, determinando la rottura
con l’identificazione del mancante, può causare inizialmente del dolore generato
dalla perdita di identità, dal crollo del mio mondo costruito (la mia storia), ma
poi, entrando in contatto con la mia più profonda Essenza (con ciò che realmente
Sono) mi accorgo di essere in uno spazio non nuovo, ma in qualcosa di già
conosciuto, è ciò che sono stato e che sono stato da sempre (la mia Essenza, il
mio vero Essere); semplicemente me ne ero dimenticato e distaccato, per aderire
ad un “dover essere”. […].”
(Laboratorio di
Pratica della Presenza)
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